Una Linea Guida per gli Stati membri, con tanto di diagramma di flusso per capire se siamo di fronte a prodotti “craccati”, ovvero illegittimi nella loro pretesa di stare sul mercato comune europeo. E’ quello che ha fatto la Commissione europea, dopo essere stata a lungo sollecitata da paesi (in particolare dell’Est Europa), che avevano lamentato la disparità di….trattamento da parte di alcune imprese del food. Stando all’accusa, alcuni brand vendevano prodotti nominalmente uguali ma con ricette diverse, per andare incontro alle richieste e gusti dei consumatori locali.
Ma lo scorso 26 settembre la Commissione europea ha provato a meglio disciplinare la materia, passibile di condanne per frode. Se del resto manca una definizione legalmente vincolante a livello UE di frode alimentare, è parimenti vero che le frodi rappresentano una costante del nuovo regolamento sui controlli ufficiali [Reg. (CE) 625/2017] e che l’enforcement sulla materia, pure lasciato agli Stati membri, si sta delineando in modo preciso e progressivo. Proprio il nuovo regolamento rimanda alle cosiddette norme di commercializzazione europee [Reg. (UE) 1308/2013], che prevedono standard costanti entro precise categorie merceologiche, in modo che il nome di determinati alimenti, anche di uso comune, possa essere utilizzato soltanto al ricorrere di determinati requisiti minimi (così è per burro, olio extravergine di oliva, confetture, succhi di frutta e tanti altri prodotti).
La linea guida della Commissione europea, disponibile sul sito Factsheet aiuta consumatori ma anche autorità nazionali deputate ai controlli a capire se realmente ci si trovi di fronte ad una frode “comparativa”.
Le imprese alimentari, nella loro legittima volontà e capacità di innovazione, possono variare ricette, purché la pratica non sia ingannevole e non porti a confusione o a un depauperamento delle caratteristiche nutritive degli alimenti.
Oltre alla Linea Guida la Commissione europea ha stanziato un milione di euro per il Joint Research Center, per sviluppare un metodo che permetta una valutazione comparativa dei prodotti.
Altra strada è un Codice di Comportamento per i produttori al fine di prevenire problemi di “Dual Quality”, anche se FoodDrink Europea (FDE) non ha apertamente supportato tale scelta seppure meglio supportato un dialogo con gli stakeholder.
Quadro di riferimento
In base alla Commissione europea, sono tre le normative di riferimento da considerare per verificare la presenza di situazioni di “dual quality”: la normativa generale orizzontale (Reg. 178/2002 e Reg. (UE) 1169/2011), ma poi anche la normativa sulle Pratiche commerciali sleali ai consumatori (Direttiva 2005/29). Qui si aggiunge, come opportunamente richiamato, la normativa europea armonizzata sulle norme di commercializzazione che prevede categorie di prodotti definiti dalla Organizzazione Comune di Mercato (OCM) – (Reg. 1308/2013).
I passaggi pregressi.
I Ministri dell’agricoltura avevano già discusso del “dual quality” lo scorso 6 marzo, (OUTCOME OF THE COUNCIL MEETING 3524th Council meeting Agriculture and Fisheries Brussels, 6 March 2017) con diverse delegazioni che hanno supportato la richiesta di Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia a porre un argine a tale fenomeno.
Sebbene si riconosca che il problema in sé non è motivo di preoccupazioni per la sicurezza alimentare; seppure lo stesso status di “frode alimentare” non sia così chiaramente definito: la “dual quality”, ovvero, la differente modalità produttiva- può creare un vulnus nelle politiche a tutela dei diritti contrattuali dei consumatori, un problema di salute pubblica (contenuto di zuccheri, grassi e sale diversi, nonché di altri nutrienti qualificanti) ma anche una frammentazione ingiustificata del mercato interno, con diversi standard di qualità a seconda dei paesi.
Da Cassis de Dijon a Smanor, fino alla sfida “Dual Quality”: stesso nome prodotti diversi?
I paesi succitati- Rep.-ceca, Slovacchia e Ungheria stanno in tal senso proponendo una legislazione europea che armonizzi il più possibile i prodotti venduti nei diversi paesi. Tendenza da tempo in atto in europea, dalla sentenza che (“Principio Smanor” 14/7/1988, C-298/87,) aveva dichiarato come le differenze qualitative tra due prodotti (generici stavolta) con lo stesso nome commerciale debbano essere minime e non in grado di pregiudicare l’uguale utilizzo degli alimenti.
La sentenza Smanor, viene dopo che nel 1978 una prima sentenza di segno opposto (C-120/78 ), la quale aveva dato un “via libera” alla circolazione degli alimenti con stesso nome ma anche radicalmente diversi nei contenuti. La sentenza voleva simbolicamente premiare proprio un funzionamento il più fluido possibile del mercato interno.
Tra denominazione di vendita e marchi commerciali
Ma se tali spinte centrifughe e centripete si erano limitate alle denominazioni di vendita- oggi il vero tema, in un’epoca in cui conta il marchio e il produttore, e la sua propria ricetta “autonoma” -sembra essere arrivato alla dimensione più privata, protetta da segreto industriale. Una bella sfida certamente.
In base ad una recente indagine condotta dagli stessi Stati in Repubblica Slovacca, su 22 prodotti di marca (di cui 22 latticini, 5 prodotti carnei, 2 prodotti a base di pesce, 2 prodotti a base di cioccolato e un prodotto da forno, oltre a 2 bevande, salse, un caffè e un tè), le differenze nella commercializzazione sono evidenti a seconda del paese di destinazione dell’alimento, e del potere di spesa dei consumatori. Considerando parametri organolettici e sensoriali, il colore, il gusto, la consistenza, il profumo e l’apparenza complessiva, oltre alla lista degli ingredienti, i risultati sono stati assolutamente sorprendenti. Almeno 10 prodotti differivano notevolmente in ragione della qualità complessiva.
E’ un aspetto che riguarda anche la qualità nutrizionale: minore contenuto di carne e di proteine, e di ingredienti “costosi”, sostituzione di frutta con aromi, uso di grassi animali al posto di oli vegetali. In Ungheria, una ricerca simile ha prodotto gli stessi risultati.
Tuttavia, la Commissione europea aveva affermato come sia legittimo per le industrie usare diverse ricette per diversi paesi, fintanto che gli ingredienti siano chiaramente indicati in etichetta e nelle informazioni B2B destinate poi ai consumatori finali. Ordinariamente la giustificazione usata dalle industrie andava nella direzione di sottolineare un migliore gradimento delle (diverse) aspettative dei consumatori, a seconda delle variazioni nei gusti nazionali. Ovviamente, i sospetti che la qualità possa essere diminuita sono altrettanto reali, anche a ragione di ordini di costo diversi.
Casi critici
In base ad alcuni orientamenti, potrebbero essere accusati di dual quality- e quindi di fronte da parte delle autorità addette ai controlli o alla correttezza delle informazioni, i prodotti che:
Vendessero con lo stesso marchio prodotti apparentemente con la stessa ricetta, in paesi diversi, ma con scostamenti “significativi” nella composizione
Soprattutto, qualora alterassero per il peggio (zuccheri, sale, grassi, diluizione dei contenuti di maggio pregio qualitativo, additivi…) il prodotto (e in questo caso viene da pensare che anche scostamenti minori della ricetta possano difficilmente essere giustificati sulla base di apparenti “gusti dei consumatori”).
Avessero etichette che suggeriscano, anche tramite traduzioni presenti (due o più registri linguistici in etichetta) che il prodotto è destinato a diversi pubblici nazionali quando in realtà va soltanto in uno Stato di commercializzazione
Avessero diverse informazioni a parità di prodotto (vantando ad esempio caratteristiche positive del prodotto su una scala nazionale quando lo stesso prodotto su altri mercati non lo dà)
La Commissione europea sta organizzando workshop con diverse autorità nazionali per meglio definire la portata del tema ed entro il 30 novembre 2017 saranno raccolte proposte di progetti nazionali a livello UE per affrontare meglio il tema.
Per approfondimenti siamo a Vostra disposizione.